mercoledì 9 agosto 2017

Prossima fermata: Padova. Scene da un non-luogo


Ho scelto di non comprarmi il carnet di biglietti per il bus. Ne prendo due, massimo tre alla volta, così posso tornare all’edicola del binario uno, alternandola ogni tanto con quella dell’atrio interno. Quella del binario uno è gestita da una coppia di toscani, si sente dalla parlata. A volte li aiuta il papà di lui, che si scusa sempre perché non è veloce come il figlio. Mi ispirano gran simpatia, tutti e tre. Anche la moglie lamentosa perché “ormai non esistono più le banconote da 5 e 10 euro e con il resto non se ne viene fuori”. C’è il profumo di tutte le edicole, di giornali freschi, di pagine lucenti, di figurine, ma lì sembra tutto più intenso.
Quella dell’atrio interno è, invece, più impersonale, più veloce e sbrigativa. Però i titolari hanno un cagnetto che ogni tanto fa capolino e dà un’abbaiata.

C’è un altro negozio in cui mi piace entrare. Fa parte di una catena londinese che vende accessori da donna. Se non sto attenta, fra borse, orecchini e sciarpe, se ne va mezzo stipendio. La commessa dai capelli rossi è diventata mia amica. Quando svolto l’angolo dopo le scale, la vedo impeccabile alla sua postazione di cassa e ci scambiamo saluti sbracciandoci sopra le teste della gente.

Di sera, mentre torno a casa, scendo le scale del sottopasso che va ai binari a tempo di musica. Oggi di mazurka. Un ragazzo con il cappellino da baseball sta suonando quella in la minore di Chopin al pianoforte del binario uno, di fronte al bar. I passi sono ritmati e leggeri, e mentre plano, una nuvola di profumo mi avvolge. A quest’ora, più o meno le sette, giù dalle scale c’è sempre odore di pulito, di detersivo ai fiori, così inebriante che non sembra detersivo, che non sembra il sottopasso, ma l’ingresso di una casa accogliente e fresca.

Ieri mattina, in direzione inversa, nella calca delle uscite dai binari, affluenti del grande fiume grigio del sottopasso, c’è un girasole caduto. Un miracolo che nessuno lo calpesti. Lo raccoglie un ragazzo di colore, vestito da rapper, e corre dietro a un uomo, che ne ha in mano altri. È il dottore di Castelfranco, che sorride e ringrazia. Io so a chi donerà quei fiori: a Patrizia, che incontra e prende sotto braccio ogni mattina alla fermata dell’autobus di fronte alla stazione. Magari è il suo compleanno, magari è il commiato prima dell’estate.
Parlano sempre fitto e piano, fanno il tragitto in bus vicini e complici. Scendono come me all’Ospedale e poi si dividono. Forse quello è l’unico momento assieme di un amore mai dichiarato, timido e lieve. O forse hanno avuto una storia d’amore in passato e poi le loro vite hanno imboccato strade differenti, per poi convergere dopo anni in stazione, in autobus.


Alla fermata di fronte alla stazione, di mattina il sole batte senza pietà. Mi rifugio spesso sotto il portico, ma ogni tanto torno fuori per non perdermi una coppietta che mi commuove. Entrambi vestono fuori moda, hanno chili di troppo, lui i capelli radi, lei gli occhiali grossi. Si amano con tenerezza. Prima di separarsi, lui le bacia sempre la mano e la tiene a lungo sulle labbra, poi corre a prendere il 9. Lei invece imbocca il portico e poco a poco scompare dalla vista.

Sull’autobus 14 che porta all’Ospedale ci sono degli habitué: una signora anziana con grandi macchie ed escoriazioni sul viso, ma dal sorriso dolcissimo; un uomo elegante, sulla sessantina, sempre al cellulare. Lo ascolto mentre prende accordi per ospitare grandi musicisti nella prossima stagione di un’orchestra. Organizza cene di benvenuto, concerti, eventi. Quando lo vedo, cerco di avvicinarmi il più possibile per ascoltare le sue telefonate, mentre fingo di leggere. Scende con me e poi attraversa il cortile del Policlinico per sbucare chissà dove, a Pontecorvo. Almeno, così credo.

Sempre sul 14 delle 8.05 ci sono due donne che si lamentano, ogni mattina. A metà giugno una lanciava maledizioni ai professori che le avevano bocciato il figlio: “anche in musica ha l’insufficienza” – “in musica? Ma se è la materia più stupida!”. Mai come quella mattina ho cercato il mio manager dei concerti, bisognosa di conforto e solidarietà, ma latitava.
Infine una donna piccola e grossa, ostinatamente polemica: “In autobus non sai che lo zaino va tolto?” – “Troppe carrozzine qua dentro” – “Parte sempre in ritardo”.
Quella del ritardo è una questione che la settimana scorsa ha assunto toni drammatici: “Cinque minuti sono tanti! Per un caffè del signor autista, io arrivo tardi al lavoro e mi prendo parole. Non è giusto. Non è giusto!” E urlando piangeva, con lacrime grosse che le scendevano sulle rughe. Le ero seduta giusto davanti e non sapevo che fare. Mentre mi sentivo inutile di fronte ai suoi occhi che chiedevano consolazione, d’un tratto ha smesso e dalla borsa ha tirato fuori “Chi”.

Un incontro invece unico, lampo muto e straordinario, è stato con un anziano dolorante. Con gran fatica si aggrappava al palo, fra gli scossoni del mezzo, tutto piegato su se stesso e trasandato, ma fiero stringeva in mano “L’accumulazione del capitale” di Rosa Luxemburg.

In stazione ci sono sempre tre militari in mimetica e mitra, spesso la polizia, talvolta i cani antidroga. Durante la primavera, le scolaresche in gita; d’estate uomini eleganti in completi di lino, uomini non eleganti con bermuda e infradito. Qualunque sia il vestito o la stagione, la maggior parte corre e si impiglia tra chi si blocca a osservare il cartellone delle partenze, con il naso all’insù.
Io ormai gli orari tra le 7.45 e le 8.15 li ho imparati.  Potrei prendere la freccia delle 7.53 per Roma, binario uno. Alle 11.15 sarei già a Termini, a mezzogiorno già a Campo dei Fiori. In certe mattine meno coraggiose, invece, avrei voglia di salire sul regionale per Montebelluna: 8.07, binario 9. Per Venezia ne parte uno ogni venti minuti. E per Venezia sarei sempre pronta.
Io però non prendo né scendo da nessun treno: la stazione è il ponte fra il mio quartiere e la città, il percorso amato-obbligato, il teatro di mille schegge di altrettante vite, alle quali curiosa assisto ogni giorno, due volte al giorno.
Ci entro la mattina e ne esco la sera dalla porta di servizio, quella per chi vive a nord della città; quella dei tanti extracomunitari che abitano in affitto vecchi condomini mai restaurati dai proprietari, a ridosso degli ultimi binari, e che respirano il gasolio dei treni regionali.
L’uscita posteriore è l’errore di qualche turista, che si guarda attorno deluso e attonito perché quella che vede non può essere la città del Santo, di Giotto, dell’Università.
Perché l’uscita posteriore dà verso il quartiere più discusso, multietnico e contraddittorio della città, l’Arcella.
Ma questa è un’altra storia.