Ho scelto di non comprarmi il carnet di biglietti per il bus. Ne prendo due, massimo tre alla volta, così posso tornare all’edicola del binario uno, alternandola ogni tanto con quella dell’atrio interno. Quella del binario uno è gestita da una coppia di toscani, si sente dalla parlata. A volte li aiuta il papà di lui, che si scusa sempre perché non è veloce come il figlio. Mi ispirano gran simpatia, tutti e tre. Anche la moglie lamentosa perché “ormai non esistono più le banconote da 5 e 10 euro e con il resto non se ne viene fuori”. C’è il profumo di tutte le edicole, di giornali freschi, di pagine lucenti, di figurine, ma lì sembra tutto più intenso.
Quella dell’atrio interno è,
invece, più impersonale, più veloce e sbrigativa. Però i titolari hanno un
cagnetto che ogni tanto fa capolino e dà un’abbaiata.
C’è un altro negozio in cui mi piace
entrare. Fa parte di una catena londinese che vende accessori da donna. Se non
sto attenta, fra borse, orecchini e sciarpe, se ne va mezzo stipendio. La
commessa dai capelli rossi è diventata mia amica. Quando svolto l’angolo dopo
le scale, la vedo impeccabile alla sua postazione di cassa e ci scambiamo
saluti sbracciandoci sopra le teste della gente.
Di sera, mentre torno a casa,
scendo le scale del sottopasso che va ai binari a tempo di musica. Oggi di
mazurka. Un ragazzo con il cappellino da baseball sta suonando quella in la
minore di Chopin al pianoforte del binario uno, di fronte al bar. I passi sono
ritmati e leggeri, e mentre plano, una nuvola di profumo mi avvolge. A
quest’ora, più o meno le sette, giù dalle scale c’è sempre odore di pulito, di
detersivo ai fiori, così inebriante che non sembra detersivo, che non sembra il
sottopasso, ma l’ingresso di una casa accogliente e fresca.
Ieri mattina, in direzione inversa,
nella calca delle uscite dai binari, affluenti del grande fiume grigio del sottopasso,
c’è un girasole caduto. Un miracolo che nessuno lo calpesti. Lo raccoglie un
ragazzo di colore, vestito da rapper, e corre dietro a un uomo, che ne ha in
mano altri. È il dottore di Castelfranco, che sorride e ringrazia. Io so a chi
donerà quei fiori: a Patrizia, che incontra e prende sotto braccio ogni mattina
alla fermata dell’autobus di fronte alla stazione. Magari è il suo compleanno,
magari è il commiato prima dell’estate.
Parlano sempre fitto e piano, fanno
il tragitto in bus vicini e complici. Scendono come me all’Ospedale e poi si
dividono. Forse quello è l’unico momento assieme di un amore mai dichiarato,
timido e lieve. O forse hanno avuto una storia d’amore in passato e poi le loro
vite hanno imboccato strade differenti, per poi convergere dopo anni in
stazione, in autobus.
Alla fermata di fronte alla
stazione, di mattina il sole batte senza pietà. Mi rifugio spesso sotto il
portico, ma ogni tanto torno fuori per non perdermi una coppietta che mi
commuove. Entrambi vestono fuori moda, hanno chili di troppo, lui i capelli
radi, lei gli occhiali grossi. Si amano con tenerezza. Prima di separarsi, lui
le bacia sempre la mano e la tiene a lungo sulle labbra, poi corre a prendere
il 9. Lei invece imbocca il portico e poco a poco scompare dalla vista.
Sull’autobus 14 che porta
all’Ospedale ci sono degli habitué: una signora anziana con grandi macchie ed
escoriazioni sul viso, ma dal sorriso dolcissimo; un uomo elegante, sulla
sessantina, sempre al cellulare. Lo ascolto mentre prende accordi per ospitare
grandi musicisti nella prossima stagione di un’orchestra. Organizza cene di
benvenuto, concerti, eventi. Quando lo vedo, cerco di avvicinarmi il più
possibile per ascoltare le sue telefonate, mentre fingo di leggere. Scende con
me e poi attraversa il cortile del Policlinico per sbucare chissà dove, a
Pontecorvo. Almeno, così credo.
Sempre sul 14 delle 8.05 ci sono
due donne che si lamentano, ogni mattina. A metà giugno una lanciava
maledizioni ai professori che le avevano bocciato il figlio: “anche in musica
ha l’insufficienza” – “in musica? Ma se è la materia più stupida!”. Mai come
quella mattina ho cercato il mio manager dei concerti, bisognosa di conforto e
solidarietà, ma latitava.
Infine una donna piccola e grossa,
ostinatamente polemica: “In autobus non sai che lo zaino va tolto?” – “Troppe
carrozzine qua dentro” – “Parte sempre in ritardo”.
Quella del ritardo è una questione
che la settimana scorsa ha assunto toni drammatici: “Cinque minuti sono tanti!
Per un caffè del signor autista, io arrivo tardi al lavoro e mi prendo parole.
Non è giusto. Non è giusto!” E urlando piangeva, con lacrime grosse che le
scendevano sulle rughe. Le ero seduta giusto davanti e non sapevo che fare.
Mentre mi sentivo inutile di fronte ai suoi occhi che chiedevano consolazione,
d’un tratto ha smesso e dalla borsa ha tirato fuori “Chi”.
Un incontro invece unico, lampo
muto e straordinario, è stato con un anziano dolorante. Con gran fatica si
aggrappava al palo, fra gli scossoni del mezzo, tutto piegato su se stesso e trasandato,
ma fiero stringeva in mano “L’accumulazione del capitale” di Rosa Luxemburg.
In stazione ci sono sempre tre
militari in mimetica e mitra, spesso la polizia, talvolta i cani antidroga.
Durante la primavera, le scolaresche in gita; d’estate uomini eleganti in
completi di lino, uomini non eleganti con bermuda e infradito. Qualunque sia il
vestito o la stagione, la maggior parte corre e si impiglia tra chi si blocca a
osservare il cartellone delle partenze, con il naso all’insù.
Io ormai gli orari tra le 7.45 e le
8.15 li ho imparati. Potrei prendere la
freccia delle 7.53 per Roma, binario uno. Alle 11.15 sarei già a Termini, a
mezzogiorno già a Campo dei Fiori. In certe mattine meno coraggiose, invece, avrei
voglia di salire sul regionale per Montebelluna: 8.07, binario 9. Per Venezia
ne parte uno ogni venti minuti. E per Venezia sarei sempre pronta.
Io però non prendo né scendo da
nessun treno: la stazione è il ponte fra il mio quartiere e la città, il
percorso amato-obbligato, il teatro di mille schegge di altrettante vite, alle
quali curiosa assisto ogni giorno, due volte al giorno.
Ci entro la mattina e ne esco la
sera dalla porta di servizio, quella per chi vive a nord della città; quella
dei tanti extracomunitari che abitano in affitto vecchi condomini mai
restaurati dai proprietari, a ridosso degli ultimi binari, e che respirano il
gasolio dei treni regionali.
L’uscita posteriore è l’errore di
qualche turista, che si guarda attorno deluso e attonito perché quella che vede
non può essere la città del Santo, di Giotto, dell’Università.
Perché l’uscita posteriore dà verso
il quartiere più discusso, multietnico e contraddittorio della città, l’Arcella.